domenica 12 novembre 2017

Valparaiso , mi amor



Dicevano le guide turistiche che quella città non era stata fondata da qualcuno. Una ad una erano nate le mura arrampicate che cercavano di sfiorare il cielo con i fumi dei camini. Poi la vita, e cioè, il fracasso quotidiano delle pentole e dei bambini che giocano, il rumorio delle donne, il ritmico colpire dell’acqua contro le vasche di legno usate per lavare i panni nei cortili, la musica messicana e i tanghi che uscivano da tante radio sgangherate e rauche. Il mercato, il porto, la stazione, la fioraia, il ciabattino, l’ambulante che sistemava ombrelli vecchi, reti e materassi. L’uomo che comprava scarpe e vestiti usati, bottiglie e giornali. Il carretto con il ghiaccio, il lattaio, il ragazzo che fabbricava con maestria una fionda, l’altro che giocava con un cerchio.

Il giorno che era arrivato li non sapeva - e non poteva neanche immaginare - che si sarebbe trattato di una seconda nascita. Tanto meno sapeva che le seconde nascite esistevano. Non immaginava che avrebbe conosciuto e si sarebbe costruito una propria libertà fatta da regole condivise e volute, che avrebbe vissuto il miracolo di un sorriso, scoperto la notte, le parole del silenzio, che sarebbe stato in grado di sorprendersi, che la curiosità sarebbe stata una condotta permanente e che tutto ciò gli sarebbe sembrato naturale e necessario... e così per molto tempo.
(fine delle illustrazioni per "la Città del vento")

martedì 7 novembre 2017

i Beatles e la chitarra verde


 
Il ritrovamento di queste illustrazioni e la decisione di condividerle in questo blog mi ha permesso di rileggere il mio “eterno racconto” nel tentativo di estrapolare i frammenti più adatti e devo confessare che sono stato in grado di rinunciare, per adesso, alla grande tentazione di rimetterci ancora le mani.
La prima pensione dove vissi era una babele difficilmente dimenticabile. Oltre agli studenti soggiornavano dei pugili, per lo più mulatti brasiliani arrivati da sperdute favellas  in attesa di combattimenti in programma ogni sabato con l’illusione di vincere il titolo (ed il denaro) in palio. Intonavano languide melodie colpendo qualsiasi barattolo trovassero a portata di mano, li trovavi per i corridoi salticchiando con la corda per allenare le gambe. Oppure “l’ingegnere” spagnolo che dirigeva alcune manutenzioni del sistema telefonico in città che, volendo cenare con la musica chiamava spesso, a pagamento,  un chitarrista perché suonasse mentre consumava la cena, oppure la dolce signora, del mestiere incerto, che dovendo dormire di giorno si lamentava della grande confusione. Riuscire a studiare era una vera impresa ma la nostra vita era fantastica.

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Carlitos, il suo compagno di stanza, pallido e magro anche lui, naso appuntito e capelli lunghissimi, figlio unico e sempre innamorato, suonava a tutte le ore, instancabilmente, melodie dei Beatles, con una chitarra verde di fabbricazione brasiliana seduto nel wc che, diceva, era l’unica stanza con un’acustica appropriata.
Mario disegnava da sempre un’interminabile linea terra–mare-aria  senza sapere se era veramente quello che aveva chiesto il suo professore di urbanistica. Di notte, sempre di notte, costruivano piccole case di cartone da porre su di una striscia di cartone, erigendo così un modello lungo l’intero corridoio. Tanti anni dopo un amico, colto e incisivo, a proposito di certi progetti e programmi, inserì in un suo discorso questa citazione:
“… il Re chiamò i saggi del regno e chiese una mappa dei suoi possedimenti. Questi la fecero, ma il Re chiese loro una più dettagliata. Loro provvidero, ma al Re non bastò neanche questa e chiese molte volte molti più dettagli, finché un giorno si ritenne soddisfatto, soltanto che la mappa era diventata più grande del regno stesso” … e cioè quasi quanto era successo con la linea terra–mare-aria di Mario.
Julio, eternamente depresso, ripeteva fino alla noia, per memorizzarli, gli articoli del Codice Civile aggiustando la cadenza a quella della metrica dell’inno nazionale.

lunedì 6 novembre 2017

A pensione nella Città del vento



 
Molte volte mi sono domandato cosa sarebbe stato di me se non avessi fatto l’università fuori sede, proprio lì nella Città del Vento e ho sempre concluso che era meglio non darsi una risposta definiva perché esiste la possibilità che sarei diventato uno di quelli che a me oggi non piacciono. In 5 anni di università sono stato in una decina di pensioni, 3 appartamenti condivisi e 2 studentati, oltre a una infinità di case e appartamenti che mi ospitarono gli ultimi due mesi quando vivevo in una mezza clandestinità. Di tutti quei luoghi conservo ricordi sbiaditi eccetto del primo che ricordo benissimo. La pensione della Signora Ida: piccola e bruta, con il labro leporino e l’amante tassista, molto gelosa, materna, generosa, lavoratrice.

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Francisco Manuel Avila della Fuente era arrivato all’Università, “fuori sede”, e aveva preso alloggio in una modesta pensione per studenti proprio nel centro della Città del vento.  Anni dopo, ormai in Europa, cercando di ricostruire quei giorni, frequentemente  gli emergeva il ricordo di aver avuto allora un'epidermica paura della solitudine. La percepiva come quella specie di brivido che si sente scorrere nel corpo quando gli altri passano senza avvertire la tua presenza. Gli sembrava che la paura della solitudine fosse stata la sensazione principale, allora, mille anni fa, quando guardava dalla finestra di un quinto piano, in una stanza che adesso capiva essere stata spoglia e povera, sicuramente oscura e anche triste. Gli venivano in mente anche i muri grigi, un sottile odore di muffa, la lampadina di poche candele, quasi gialla, il pavimento di tavole oscure e lucide di cera, un letto scricchiolante ed incurvato. Erano state tante le ore passate con il naso attaccato ai vetri guardando il semaforo, la piazza e la sua fontana con i leoni dipinti di rosa in qualche goliardica “serata da leoni”, appunto. Poteva vedere il bar dell’angolo, il palazzo di fronte con la ragazza bruna che guardava da un’altra finestra come lui, la pioggia o il sole, le macchine, le biciclette, i carretti tirati a mano e tante persone che semplicemente transitavano in fretta in ogni direzione. (da La Città del vento bozza n°2)

 
 

sabato 4 novembre 2017

Autoritratto


 
Anni fa, parecchi anni fa, mi avevano prestato  un piccolo portatile Macintosh quando gli utenti Mac erano una ristretta élite quasi, o del tutto, radical scic. Un amico mi istallò un programma di grafica e mi sono divertito ad imparare quello che allora per me era uno strumento sorprendente.
Contemporaneamente scrivevo, come continuo ad scrivere da circa trent’anni, un complicato racconto lungo o semplice romanzo corto – fate voi – sempre rimasto nel cassetto ed ora sepolto in qualche cartella del computer, che trattava delle mie giovanili vicissitudini para politiche ed esistenziali. Quindi decisi di dedicare le mie esercitazioni con la nuova app. grafica alle illustrazioni del “best seller” in preparazioni. Il testo è stato modificato mille volte, a dir poco, ma il nome è rimasto sempre quello: “La città del vento”.
Si come sembra che viviamo un periodo di ritrovamenti più o meno fortunati (vedi le fotografie di Mario Aguirre nel post precedente), ordinando alcune carte ho trovato i disegni stampati in alcuni fogli ormai un po’ ingialliti. Certo ormai che il racconto non  goderà mai delle dolce carezze dei rulli di una macchina di stampa e tantomeno il clamore di una pubblicazione ho deciso di condividere su Condoricose, a puntate, alcuni disegni corredati da qualche breve nota. Ecco il primo.

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Sembrava che a Francisco Manuel Avila della Fuente piacesse fare la parte dello studente povero, solo, pensieroso, naturalmente pallido, con i capelli lunghi, immerso in un pullover esageratamente lungo da dove spuntavano i jeans scoloriti irregolarmente e a “zampa d’elefante”, sempre con tanti giornali e libri sottobraccio. (da La città del vento, bozza n° 463)